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Nord-Sud, Sud Globale, o Paesi a reddito basso e medio?

di Massimiliano Lepratti
Coordinatore attività internazionali di Get Up And Goals!

I termini della disuguaglianza internazionale

Nel mondo dell’educazione alla cittadinanza globale l’attenzione all’uso dei termini corretti riveste un’importanza centrale. I termini non sono neutri e riflettono una visione della realtà, spesso implicita, che durante i processi educativi è importante esplicitare. Il tema è di antica data ed alcuni esempi appartenenti a periodi storici diversi possono aiutare ad inquadrarlo. Già 2500 anni fa il filosofo cinese Confucio diceva: “Se vuoi la pace nel tuo regno prendi buona cura delle definizioni”, sottolineando il rischio che si corre quando due persone si riferiscono alla stessa cosa usando parole diverse o ambigue. Un’altra questione linguistica che attraversa i secoli è il problema della caratterizzazione dell’”altro”: la posizione della frontiera linguistica (chi viene posto al di fuori del “noi”?) e i termini (spesso spregiativi) con cui gli “altri” vengono definiti  sono un riflesso di una visione del mondo che tende ad autoriprodursi, diventando “naturale” e perdendo nel tempo il carattere di costrutto ideologico che sta all’origine di ogni scelta definitoria; un processo che rischia di perpetuare pregiudizi e incomprensioni.

Passando dal generale al particolare, l’importanza di un’analisi sugli impliciti culturali del linguaggio trova riscontro anche in una questione molto vicina a chi si occupa di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale: i termini attraverso i quali identificare il problema delle disuguaglianze su scala planetaria. Il titolo di questo articolo cita tre esempi entrati nell’uso, ciascuno dei quali portatore di una visione culturale della realtà globale, ma per capire quale tra questi possa essere più soddisfacente è utile esaminare la visione da cui ciascuno origina.

Il termine apparentemente asettico “Paesi a reddito basso e medio è quello utilizzato e diffuso dalla Banca Mondiale. La Banca Mondiale classifica i paesi in base al reddito pro capite, suddivide in due sottocategorie il termine “medio” (“medio-basso e medio-alto”) e pubblica ogni anno una classifica degli stati, aggiustando i dati in base a parametri economici quali ad esempio il tasso di inflazione.

I problemi principali di questa definizione molto tecnica e a prima vista neutrale sono due. 

Il primo tra questi è il riduzionismo economico: il reddito monetario è sicuramente un indicatore  sintetico e approssimato della condizione complessiva, ma non definisce la capacità di spesa di una persona (l’accesso gratuito ai servizi sociali, oltre che l’economia non monetaria possono essere fattori compensativi) e, al di là di considerazioni impegnative sulla relazione reddito-benessere, la sua attendibilità è bassa se, come la Banca Mondiale, si sceglie di considerare medie nazionali che spesso celano diseguaglianze interne profonde. 

Il secondo problema, ancora più grave, è l’assenza totale di ogni elemento di relazione politico-economica tra i diversi paesi dell’elenco. Ogni stato riceve dalla Banca Mondiale un livello suo proprio, incapace tuttavia di esprimere in alcun modo le interazioni presenti e passate che hanno condizionato la sua posizione in classifica.

Il termine “Sud globale” (spesso citato come “Global South” anche nei documenti italiani) ha un’origine e un uso meno oggettivi. Pur nato alla fine degli anni ’60 si è affermato nei primi 15 anni del XXI secolo, sostituendo spesso altre definizioni. Coloro che vi fanno riferimento lo usano non sempre con significato univoco: per alcuni l’accento è posto sulla crescente interazione e cooperazione tra paesi che appartengono a quello che, fino alla caduta del Muro di Berlino e del “Secondo mondo” (i paesi socialisti industrializzati), era chiamato il “Terzo mondo”; in altri casi, specialmente all’interno degli stati che non appartengono a questo insieme, il termine viene riferito all’idea che il “Sud”, inteso come sinonimo di difficoltà socio-economica, sia una realtà trasversale, non limitata ai paesi dell’ex “Terzo mondo”, ma diffusa anche nelle periferie del Primo e dell’ex Secondo mondo.
Anche in questo caso i problemi non mancano. La cooperazione “Sud-Sud” è sicuramente un elemento interessante del XXI secolo, ma al suo interno si operano forzature non indifferenti, mettendo sullo stesso piano una potenza industriale come la Russia o un paese che oggi e nel passato ha quasi sempre avuto una posizione internazionale altissima come la Cina insieme a paesi oggi assai più deboli economicamente e politicamente come l’India e il Sudafrica. 
L’idea di un Sud “trasversale” alle periferie planetarie non tiene invece conto delle grosse differenze oggettive tra queste.  Mettere sullo stesso piano le periferie estreme di Milano (che pure sono brutte e piene di problemi) con quelle di Lima o di Recife (in buona parte realmente disperate, senza servizi pubblici, assai più misere di quelle lombarde) appare un’opera di semplificazione eccessiva, che ancora una volta nega i processi storici alla base della classificazione proposta invece nel capoverso successivo.

Centro-periferia e Nord-Sud appaiono invece termini più ricchi e capaci di restituire profondità storica e relazionale alle dinamiche che hanno prodotto le diseguaglianze internazionali. 
Insieme ad altri eccellenti scienziati sociali, lo studioso egiziano Samir Amin, scomparso nel 2018, ha usato il termine centro-periferia, integrando in maniera profonda e originale lo studio della storia, dell’economia, della politica e delle visioni culturali del mondo per ricostruire origini e modi di funzionamento delle diseguaglianze. Secondo questa analisi le periferie sono un frutto del colonialismo sia di epoca precapitalistica (America latina, Indonesia olandese...), sia di epoca capitalistica (Africa, parte dell'Asia). In entrambi i casi l’avvento coloniale ha creato in quelle terre un modo di funzionamento socio-economico peculiare, diretto dall'esterno e non, come in Europa o in Nord America, sviluppatosi in primo luogo per soddisfare bisogni interni (e solo dopo – v. il caso USA - approdato alle esportazioni). Il Brasile del Nord Est, e poi i Caraibi, si sviluppano come periferia economica sotto il controllo dei centri portoghese e spagnolo per produrre zucchero da esportazione, così come il Senegal tempo dopo viene piegato alla produzione delle arachidi per olio lubrificante o l'Alto Volta (oggi Burkina Faso) alla produzione della gomma per il “centro” francese.
In tutti i casi citati (e vale anche in Asia: lo Sri Lanka da terra da riso per i suoi abitanti diventa terra da tè per gli inglesi) lo sviluppo economico interno viene stravolto ed extravertito per soddisfare dinamiche esterne orientate a vantaggio dei paesi colonizzatori. Questa dinamica strutturale non finisce con la decolonizzazione e la nascita dei nuovi stati-nazione: tutti i paesi già colonizzati di Africa, Asia, America latina hanno sviluppato e sostanzialmente mantenuto una forma socio economica peculiare (Samir Amin lo definiva “capitalismo periferico”) in cui l'esportazione di materie prime resta non sempre predominante, ma comunque fondamentale; l'agricoltura è abbondantemente sottopagata; le cinture urbane sono in gran parte orientate all'economia informale, frutto di migrazioni rapide e relativamente recenti di contadini che non trovano in città le grandi industrie bisognose di manodopera dell'Europa negli anni '50, ma imprese automatizzate che non hanno bisogno di loro e li respingono ai margini dell'economia e della società. In queste condizioni non nasce un sindacato forte, c’è poca redistribuzione del reddito, la classe media si sviluppa a fatica. E questo processo va avanti anche in decenni recenti, rafforzato dall'aumento delle esportazioni di materie prime per ripagare i debiti esteri, cresciuti vertiginosamente per un lungo periodo successivo al 1982, e rafforzato dai monopoli del Nord del mondo su brevetti, altre tecnologie rilevanti, armamenti, controllo dei flussi finanziari.

Da questa sintetica ricostruzione storica emerge il senso di scelte terminologiche orientate a mostrare due poli di una relazione di potere, sia che queste definizioni contengano espliciti riferimenti a una gerarchia (centri-periferie), sia che preferiscano un riferimento prevalentemente geografico (Nord-Sud). 
A differenza di quanto avveniva negli anni ‘60 e ‘70, il termine Nord-Sud ha nettamente prevalso a partire dagli anni ‘80. La ragione principale è dovuta all’autorevolezza istituzionale della fonte che ha coniato la definizione: la Commissione ONU guidata da una figura di grande prestigio come l’ex cancelliere tedesco Willy Brandt che, al termine di due anni di lavori, ha consegnato al segretario ONU dell’epoca una relazione su come affrontare i problemi dello “sviluppo”[1]. Brandt, oltre a proporre la contrapposizione Nord–Sud come prioritaria rispetto a quella Est-Ovest (destinata infatti ad esaurirsi una decina d’anni dopo), ha anche prodotto una carta geografica sui confini tra Nord e Sud del mondo che ha disegnato nell’immaginario pubblico una rappresentazione plastica e concreta del concetto, guadagnando una forte attenzione da parte del mondo che studiava i problemi dello “Sviluppo ineguale”
Senza voler esprimere una preferenza di merito per l’uno o per l’altra fra queste due definizioni, la seconda è maggiormente diffusa, rendendo più immediato un suo recupero come possibile terminologia adatta a meglio rappresentare il tema delle diseguaglianze internazionali.    

Interessante infine il fatto che nell’Agenda 2030 l’obiettivo 10 parli di “Ridurre l'ineguaglianza all'interno di e fra le Nazioni”. Pur non essendovi un riferimento alle relazioni storico-politiche tra i paesi, la formulazione pone l’attenzione a un legame tra i due livelli di diseguaglianza, interno e internazionale, spesso interconnessi, sebbene generalmente trattati come problemi separati.

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[1]    Per una sintesi in inglese: https://www.sharing.org/information-centre/reports/brandt-report-summary

Ultima modifica il Venerdì, 15 Gennaio 2021 09:02